IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Ha emesso la seguente ordinanza a scioglimento della riserva assunta all'udienza preliminare del giorno 12 aprile 1991 nel processo penale n. 8019/90 reg. sez. gip. nei confronti di Scattaretica Salvatore e di Trecate Rosario, entrambi imputati del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., del c.p. e 71, primo comma, della legge n. 685/1975, modificata dalla legge 26 giugno 1990, n. 162, commesso in Buttigliera Alta ed altri luoghi, il 17 ottobre 1990, provvedendo in ordine all'eccezione, sollevata dalla difesa degli imputati, di legittimita' costituzionale dell'art. 438 comma primo del c.p.p. con riferimento agli artt. 3 (laddove e' stabilito il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge), 104 (principio di indipendenza della magistratura da ogni altro potere) e 107, terzo comma (principio che stabilisce che i magistrati si distinguono tra loro solo per la diversita' delle funzioni) della Costituzione, in quanto consente al p.m. di opporre il suo dissenso dalla richiesta dell'imputato di procedere a giudizio abbreviato, appellandosi alla non definibilita' del caso allo stato degli atti dovuta a carenza delle indagini preliminari che avrebbe potuto essere evitata dallo stesso p.m. O S S E R V A Nel corso dell'udienza preliminare, gli imputati Scattaretica Salvatore e Trecate Rosario formulavano richiesta orale di definizione anticipata del processo a norma dell'art. 438 del c.p.p. Il p.m. non prestava tuttavia il suo consenso, motivando con l'addurre che il processo non poteva essere definito allo stato degli atti, stante l'esigenza di acquisire le deposizioni dibattimentali del personale di P.G. che aveva proceduto all'arresto degli imputati ed al sequestro del corpo di reato. Il giudice dell'udienza preliminare, preso atto della mancata prestazione del consenso da parte del p.m. e rilevato che pertanto difettava una condizione necessaria perche' si potesse procedere a giudizio abbreviato, non accoglieva la richiesta formulata degli imputati, disponendo procedersi oltre nell'udienza. La difesa degli imputati a questo punto sollevava la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 438, primo comma del c.p.p., traendo argomento dalla ritenuta violazione dei principi costituzionali sopra enunciati. Il p.m. si opponeva, sostenendo che, mentre la questione sollevata appariva rilevante, era tuttavia manifestamente infondata. Occorre in primo luogo osservare che l'eccezione proposta dalla difesa e' rilevante. E' infatti vero che si potrebbe opporre a questo riguardo che la Corte costituzionale con sentenza n. 81/91, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 del c.p.p., nella parte in cui non prevede che il p.m., in caso di dissenso, sia tenuto ad enunciarne le ragioni e nella parte in cui non prevede che il giudice, quando, a dibattimento concluso, ritiene ingiustificato il dissenso del p.m., possa applicare all'imputato la riduzione di pena contemplata dall'art. 442 secondo comma dello stesso codice. Ed e' dunque vero che si potrebbe percio' argomentare, in senso contrario alla rilevanza dell'eccezione, che l'eventuale ingiustificato dissenso del p.m. che male valutasse la possibilita' di definire il processo allo stato degli atti non si tradurrebbe comunque in un danno per l'imputato, poiche' il giudice del dibattimento potrebbe in seguito applicargli pur sempre la diminuzione di pena prevista dall'art. 442 del c.p.p. Una siffatta maniera di argomentare, peraltro, non darebbe il giusto rilievo alla considerazione che la valutazione circa l'eventuale carenza dei requisiti necessari perche' il dissenso del p.m. possa ritenersi giustificato dovrebbe riportarsi alla situazione probatoria che esisteva nel momento in cui il consenso non fu prestato e non potrebbe quindi considerare ingiustificato il dissenso motivato con l'insufficiente estensione delle indagini preliminari; giacche', quando quella insufficienza fosse reale, l'impossibilita' di definire il processo allo stato degli atti sarebbe incontestabile. Con la conseguenza, dunque, che, qualora, come nel caso in esame, il p.m. si limitasse a motivare la mancata prestazione del consenso con l'insufficienza delle indagini da lui stesso compiute, in tal caso la motivazione da lui addotta sarebbe ineccepibile ed il suo dissenso dovrebbe dal giudice del dibattimento essere ritenuto pienamente giustificato. La rilevanza della questione proposta e' quindi innegabile. Infatti l'ulteriore valutazione da parte del giudice, a dibattimento ormai concluso, circa l'essere stato giustificato o ingiustificato il mancato consenso del p.m. non potrebbe riparare, sotto il profilo sanzionatorio, all'impossibilita' di applicare all'imputato la diminuzione di pena prevista dall'art. 442, secondo comma, del c.p.p. La questione sollevata dalla difesa pertanto appare rilevante, perche' l'eccepito profilo di illegittimita' costituzionale dell'art. 438, primo comma, del c.p.p. si concreterebbe, se fondato, in una diversa disciplina del caso in esame. Si tratta quindi di stabilire, a questo punto, se l'eccezione sia manifestamente infondata. La difesa ha ritenuto che la fondatezza della questione discende dall'incompatibilita' della norma dell'art. 438 del c.p.p. con il principio di eguaglianza e con il principio che stabilisce che i magistrati si distinguono tra loro solo per la diversita' delle funzioni, sancito dall'art. 107, terzo comma, del c.p.p. della Costituzione, oltre che con il principio dell'indipendenza della magistratura da ogni altro potere statuito dall'art. 104 della Costituzione. Ha rilevato a questo riguardo che, da un lato, e' ravvisabile una violazione del primo principio in tutti i casi in cui il p.m. adotti un diverso modo di condurre le indagini preliminari nei confronti di due diversi imputati, pur destinatari della stessa imputazione e caratterizzati dalla stessa capacita' a delinquere; dall'altro, che e' ravvisabile una violazione del secondo principio (il richiamo al terzo appare invece inconferente), laddove, nel distinguere i magistrati del p.m. da quelli a cui sono attribuiti compiti giurisdizionali solo per la diversita' delle rispettive funzioni, li equipara pertanto ai giudici sotto ogni altro rispetto. In definitiva, il suo assunto e' che, in quanto tali, i magistrati del p.m. sono destinatari di un obbligo di imparziale applicazione della legge in ogni singolo caso. Da esso ricava che, dunque, non sarebbe costituzionalmente legittimo che conducessero le indagini preliminari in modo non uniforme per tutti i soggetti di indagini che si trovano in situazioni identiche, con la conseguenza di creare arbitrariamente le condizioni per negare il consenso alla definizione anticipata del processo che li riguarda nei confronti di alcuni o per prestarlo invece nei confronti di altri. Questo assunto, cosi' come ora sintetizzato, non puo' essere condiviso. Non pare infatti corretto far discendere dall'obbligo di imparziale applicazione della legge previsto anche per i magistrati del p.m. un correlativo loro obbligo di condurre sempre le indagini preliminari in modo esauriente e completo, si da permettere che, concluse le indagini con richiesta di decreto di rinvio a giudizio, all'udienza preliminare il processo possa sempre essere definito allo stato degli atti nei confronti di tutti gli imputati che versino in situazioni sostanzialmente uguali. La conclusione a cui perviene la difesa rappresenterebbe una sensibile lesione della direttiva, stabilita dal punto 37 della legge-delega, secondo cui il p.m. ha il potere-dovere di compiere indagini in funzione dell'esercizio dell'azione penale; in attuazione della quale il legislatore delegato ha previsto all'art. 326 che il p.m. svolge le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale. Nella Relazione ministeriale si commenta inequivocabilmente, a tale proposito, che l'art. 326 specifica le finalita' delle indagini preliminari per ribadire che esse non possono piu' venire confuse con la fase dell'istruzione sommaria e chiarendo che tali finalita', in aderenza alla direttiva 37 della legge-delega, sono rappresentate esclusivamente dalla necessita' di deliberare la notizia criminis al fine di configurarla entro una precisa imputazione e di scegliere un tipo di domanda da proporre al giudice competente. Si soggiunge poi che questa limitata finalizzazione delle indagini preliminari che emerge con evidenza dai lavori preparatori costituisce uno dei punti salienti della riforma. Non sembra pertanto sia conforme alla visione del ruolo che viene attribuito al p.m. nel nuovo processo conferirgli non soltanto il potere-dovere di svolgere le indagini che siano necessarie per le determinazioni inerenti all'azione penale, ma anche il potere-dovere di svolgere tutte le altre indagini di cui egli ravvisi l'utilita' perche' si possa dare ingresso alla definizione anticipata del processo a norma degli artt. 438 e seguenti del c.p.p. Simile interpretazione stravolgerebbe infatti la stessa funzione delle indagini preliminari nel nuovo processo. Inoltre non pare imposta dai principi sanciti dagli artt. 104 e 107 della Costituzione, poiche' questi mirano unicamente a disciplinare le garanzie che spettano ai magistrati del pubblico ministero, cosi' come agli altri magistrati, ma non sono rivolti a rendere inderogabile un modo di svolgere le indagini preliminari che, in ultima analisi, finirebbe con il corrispondere a quello che il codice abrogato aveva esplicitamente previsto con riferimento all'istruzione sommaria. Tuttavia le norme degli artt. 438, 439 e 440 del c.p.p., nel subordinare al consenso del p.m. il potere del giudice dell'udienza preliminare di definire anticipatamente il processo, possono dare luogo a situazioni concrete tali da suscitare dubbi non trascurabili circa la loro legittimita' costituzionale, specie alla luce delle recenti decisioni della Corte costituzionale. E questo vale appunto anche per il caso di cui si discute. Infatti, se e' vero che, come gia' visto, non puo' in alcun modo essere negato il potere del p.m. di limitare le indagini preliminari da lui svolte a quanto gli e' imposto dalla stretta necessita' di delibare la notitia criminis e di scegliere quale domanda proporre al giudice competente, se e' vero, inoltre, che egli, nel motivare il suo eventuale dissenso dalla richiesta di giudizio abbreviato presentata dall'imputato, deve raccordare la sua scelta alla definibilita' del processo allo stato degli atti (sentenza n. 66/9/0), cioe' al criterio che e' imperniato sull'effettiva utilita' del passaggio al dibattimento, criterio che, alla stregua della normativa in vigore, non puo' che identificarsi in quello - ricavabile dal confronto con i poteri conferiti al giudice dall'art. 440, primo comma - consistente nel ritenere il processo non definibile allo stato degli atti v. sentenza n. 81/1991), allora si possono verificare dei casi, come quello in esame, in cui le scelte compiute appaiono potenzialmente incompatibili sia con il principio costituzionale di uguaglianza che con il principio costituzionale di legalita' della pena. Puo' accadere, ed e' accaduto nel presente processo, che la motivazione del dissenso del p.m. sia rappresentata dall'impossibilita' di definire il processo allo stato degli atti perche' le indagini preliminari da lui eseguite sono state volontariamente insufficienti. In questi casi l'impossibilita' di definire il processo allo stato degli atti e, conseguentemente, l'esclusione del diritto dell'imputato ad ottenere la riduzione di pena prevista dall'art. 442, secondo comma, del c.p.p. dipendono dunque dalle scelte compiute da una delle due parti del processo. Per di piu' dipendono da scelte compiute insindacabilmente, perche' le ragioni di strategia processuale sulla base delle quali sono state prese non possono essere in alcun modo riesaminate dal giudice dell'udienza preliminare, ne', successivamente, dal giudice del dibattimento: il quale non potra' ritenere ingiustificato il dissenso del p.m., se realmente il processo non poteva essere definito allo stato degli atti per insufficienza delle indagini riconducibile a fatto del p.m. Non si puo' fare a meno di osservare che la situazione ora descritta integra una violazione del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. Sotto un primo profilo, questa violazione e' ravvisabile con riferimento alla disparita' di trattamento di casi eguali che si ricollegherebbe all'ipotesi che indagini preliminari sufficienti fossero invece compiute in casi sostanzialmente identici a quello in cui invece non fossero svolte dal p.m. Ma, sotto un secondo profilo, essa puo' invece essere ravvisata nella lesione della parita' tra accusa e difesa che ha trovato consacrazione sistematica nella direttiva n. 3 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parita' in ogni stato e grado del procedimento), poiche' il p.m., con lo scegliere di compiere indagini non sufficienti per definire il processo allo stato degli atti, verrebbe a privare l'imputato della riduzione di pena prevista dall'art. 442, secondo comma, del c.p.p. Si potrebbe obiettare che, sotto questo secondo profilo, la violazione del principio di uguaglianza non sussiste, perche' i difensori potrebbero fare ricorso alla facolta' di svolgere investigazioni loro riservata dall'art. 38 delle disp. att. del c.p.p., compensando con questo mezzo l'insufficiente attivita' del p.m. A tale argomento, indipendentemente dall'osservazione che la violazione ora prospettata sarebbe pur sempre ravvisabile nei rapporti tra imputati che versassero in situazioni tra loro uguali, ma i cui difensori si attivassero diversamente, sembra tuttavia fondato opporre che le facolta' riconosciute ai difensori per l'esercizio del diritto alla prova non hanno estensione, ne' natura tali da eguagliare il potere-dovere attribuito al p.m. ai fini dello svolgimento delle indagini preliminari. Basti considerare, da un lato, che si e' autorevolmente ritenuto che le investigazioni della difesa ex art. 38 delle disp. att. del c.p.p., non comportando l'esercizio di pubbliche funzioni, non possono menomare le liberta' individuali (ad esempio, il difensore non potra' mai richiedere l'accompagnamento coattivo del testimonio), dall'altro, che i risultati di quelle investigazioni che si concretassero in documenti rappresentativi di dichiarazioni rilasciate ai fini del procedimento (come le dichiarazioni di testimoni) non sarebbero acquisibili al procedimento, in quanto essi dovrebbero essere qualificati come atti, anziche' come documenti. L'ipotesi sopra ipotizzata, cioe' quella del p.m. che svolge indagini insufficienti a consentire la decisione allo stato degli atti, integra inoltre una possibile violazione del principio di legalita' della pena stabilito dall'art. 25 della Costituzione. Essa infatti pare dare luogo, in caso di condanna, ad una soggezione del giudice, nella determinazione della pena che dovra' essere irrogata, all'attivita' o all'inattivita' di una delle parti. In altre parole lo assoggetta alla sufficienza o all'insufficienza delle indagini svolte dal p.m., nel senso che riconosce a quest'ultimo la facolta' di vincolare il giudice alle scelte da lui compiute per quanto concerne la possibilita' di definire il processo allo stato degli atti: conseguentemente la facolta' di vincolarlo, in caso di condanna, a non concedere la riduzione di pena prevista dal secondo comma dell'art. 442 del c.p.p. Non varrebbe obiettare, neppure in questo caso, che, in seguito alla sentenza n. 81/1991 della Corte costituzionale, il giudice del dibattimento che ritenesse ingiustificato il dissenso del p.m., potrebbe applicare all'imputato la riduzione di pena contemplata dall'art. 442, secondo comma, del c.p.p. Si e' gia' infatti osservato che la facolta' del giudice del dibattimento di ritenere ingiustificata la mancata prestazione del consenso al giudizio abbreviato non potrebbe trovare attuazione nell'ipotesi di cui si discute, perche' il dissenso del p.m. sarebbe perfettamente giustificato dall'impossibilita' di definire il processo allo stato degli atti, sia pure da lui stesso voluta. Inoltre non sembra si potrebbe fondatamente opporre che questa soggezione del giudice alle scelte del p.m. e' esclusa dalla facolta' del giudice dell'udienza preliminare di fare ricorso alle attivita' di integrazione probatoria previste dall'art. 422 del c.p.p. L'oggetto di questa facolta' e' infatti rigorosamente limitato a quanto sia manifestamente decisivo ai fini dell'accoglimento della richiesta di rinvio a giudizio o a quanto sia evidentemente decisivo ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere (art. 422, secondo comma, del c.p.p.). Essa non potrebbe dunque estendersi alle attivita' di integrazione dello stato degli atti che apparissero necessarie per definire il processo. La normativa contenuta nel combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440 del c.p.p., alla stregua di queste considerazioni, appare pertanto sospetta di illegittimita' costituzionale anche con riferimento all'art. 25 secondo comma della Costituzione. In conclusione, i rilevati profili di dubbia legittimita' costituzionale paiono concretarsi nella mancata previsione, in tutti i casi in cui l'impossibilita' di definire il processo allo stato degli atti dipende dall'insufficienza rimediabile delle indagini preliminari svolte dal p.m., di una facolta' di integrazione delle prove riservata al giudice dell'udienza preliminare. Questa facolta' dovrebbe tradursi, non molto dissimilmente da quanto prevede l'art. 422 del c.p.p., nel potere-dovere del giudice di indicare alle parti, ed in particolare al p.m., i temi lasciati incompleti dallo stesso p.m., sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni al fine di poter definire il processo allo stato degli atti. Per ovvie considerazioni inerenti alla sua stessa natura, questa facolta' di integrazione non potrebbe infatti essere rimessa al giudice della fase dibattimentale, ma deve invece essere riservata al giudice dell'udienza preliminare. In questo senso ed in questi limiti la questione di legittimita' costituzionale ora esaminata deve ritenersi non manifestamente infondata. Il processo deve pertanto essere sospeso e gli atti devono essere trasmessi alla Corte costituzionale per la risoluzione della questione. Deve nello stesso tempo essere ordinata la scarcerazione dell'imputato Scattaretica per scadenza dei termini a decorrere dal 16 aprile 1991 (cioe' dalla decorrenza del termine di sei mesi dall'arresto), riservando di disporre altre misure cautelari di cui ricorrano i presupposti qualora il p.m. ne faccia richiesta.